C’è chi medita per potenziare il proprio benessere e chi per soddisfare il proprio anelito spirituale. Ma le due cose sono poi tanto diverse? Vediamo.​

La meditazione, nata in Asia, è stata tramandata dalle varie tradizioni sapienziali come metodo per accedere all’assoluto incondizionato. La sua diffusione in Occidente è avvenuta quindi dapprima in ambienti spirituali. Da qui poi è stata sdoganata negli ultimi decenni per essere adottata in ambiti clinico-terapeutici.

Oggi è presente in tutti i settori della società, compreso il mondo lavorativo e quello scolastico. La motivazione di questa diffusione capillare sembra semplice: ci si rilassa e quindi si sta meglio. Chiunque mediti da un po’ di tempo però sa che il rilassamento è solo l’effetto più superficiale.
E qui tocchiamo il primo punto fondamentale:

la costanza nella pratica

La meditazione di cui parlo infatti è qualcosa che va esercitata ogni giorno, o almeno con una certa regolarità. Solo così diventa uno stato dell’essere, perché cambia la nostra fisiologia e quindi il nostro modo di percepire la realtà tutta.

Chiarisco subito un altro punto fondamentale: esistono diversi tipi di meditazione e gli scienziati hanno rilevato che non producono tutti gli stessi effetti.

Dopo averne sperimentati diversi nel corso degli anni, io mi dedico alla meditazione di consapevolezza (Vipassana), che si fonda sull’attenzione al respiro.

Da questa meditazione di origine buddista è poi nata negli Stati Uniti la mindfulness, una versione semplificata della Vipassana in cui i riferimenti al buddismo sono ridotti al minimo.
In questo articolo mi riferisco a questo tipo di pratica meditativa,

fondata appunto sull’attenzione al respiro.

I primi medici, psicologi e scienziati che si sono interessati agli effetti della meditazione da un punto di vista scientifico erano loro stessi dei praticanti. Avevano seguito maestri buddisti e frequentato ritiri di Vipassana. Erano ben consapevoli degli effetti psicologici della meditazione e, data la loro formazione, erano molto curiosi di indagarne i meccanismi biologici di base.

Grazie agli studi medico-scientifici degli ultimi decenni è stato possibile quantificare in modo dettagliato molti effetti della meditazione, che oggi è utilizzata non solo per ridurre lo stress e l’ansia, ma anche per molti altri scopi.

Il fatto ad esempio che meditando migliorino la concentrazione e la chiarezza mentale è qualcosa che può essere utile a chiunque per vivere meglio.
E in effetti oggi nella nostra società la meditazione si sta diffondendo più per migliorare il benessere in vita che non per accedere al divino.

Ma le due motivazioni sono poi così separate?

Nel buddismo non ci sono riferimenti a Dio. Il nocciolo della filosofia buddista non è una collezione di regole etiche e rituali, come sono la maggior parte delle religioni. Si tratta più di un’elaborazione analitica continua della mente, una specie di psicanalisi ante-litteram. Ed è proprio l’avere alla base l’osservazione sperimentale di sé stessi che la rende interessante agli occhi di psicologi, medici e scienziati.

Lo scopo ultimo della meditazione buddista è poi quello di raggiungere l’illuminazione o nirvana, la liberazione.

Ma liberazione da che cosa?

Dal desiderio o attaccamento, e quindi dall’avversione e dalla confusione, dice il Buddha. In pratica dalla schiavitù della mente e delle passioni.

Liberazione dai condizionamenti, si dice oggi. Intendendo tutti gli istinti innati e gli automatismi appresi nel corso della vita che ci fanno pensare, parlare e agire come fossimo dei robot programmati.

​Chi medita viene istruito ad osservare in modo non-giudicante i propri stati fisici e mentali e quindi a non alimentare il desiderio di cambiare ciò che si sperimenta. Questa capacità di accettare ciò che emerge alla coscienza, sia esso piacevole, spiacevole o neutro, porta a dis-identificarsi dai propri contenuti mentali con conseguente riduzione della sofferenza individuale, sia fisica che esistenziale.

L’allenamento costante di questa abilità dona con il tempo sempre più pace e benessere. Il segreto della felicità è insomma dentro di noi ed è accessibile a chiunque al di là delle differenze culturali, sociali o anagrafiche.

Accettare noi stessi così come siamo, sviluppa poi l’abilità di accogliere anche il resto del mondo e provare quindi meno avversione. La diminuzione dei conflitti interiori si riflette insomma in una diminuzione dei conflitti con gli altri, che dovrebbe innescare poi un circolo virtuoso, dove una società più pacifica genera individui più sereni e in pace.
Ed è qui che scienza e spiritualità si incontrano.

La scienza ha dimostrato che la meditazione di consapevolezza ha effetti positivi sul benessere psico-fisico e questo si traduce in maggiore felicità. Chi ha bisogno di risposte al proprio anelito trascendente vedrà la propria ansia (o angoscia esistenziale) diminuire per l’aumentata serenità interiore.
​Se poi il fine ultimo della nostra specie sia quello di raggiungere il nirvana, questo nessuno può dimostrarlo ed entriamo quindi nel regno delle credenze personali. Certo una società più in pace favorirebbe l’evolversi di una coscienza collettiva diversa. E nel frattempo chissà quali altre scoperte scientifiche ci attenderebbero! Due eventi (se mai si verificheranno) sarebbero di sicuro significativi: scoprire le leggi (matematiche e fisiche) che governano il sorgere del pensiero e le sincronicità.

​Per ora a me basta verificare che durante la meditazione accade qualcosa di molto vero a livello soggettivo. Indipendentemente dalle credenze personali, chiunque si alleni a focalizzare l’attenzione in un punto, fa esperienza dell’immediatezza del momento presente.
Poco importa infatti cosa si stia contemplando durante la seduta, lì in quel momento siamo nudi con noi stessi, senza maschere e sempre meno interessati ad uniformarci ad un’idea di noi stessi. Siamo ciò che siamo e basta, non cerchiamo più di essere buoni o bravi o in un certo modo.

Magari ci sediamo e per parecchi minuti contempliamo la nostra rabbia: le sensazioni fisiche che proviamo e i nostri pensieri che oscillano tra “Questa meditazione non serve a nulla! Dopo tutti questi anni sono ancora così arrabbiata!” e “Che bello vedere con questa profondità e chiarezza la mia amica rabbia”.
E la meditazione è tutta lì, in quella verità immediata. Difficile dunque negarne il valore, perché se non altro in quel momento invece di elaborare concetti su noi stessi e il mondo, ci sentiamo un po’ più vicini alla verità sulla realtà di noi stessi e del mondo.

E questo ha un correlato fisiologico.

Quando siamo immobili con gli occhi chiusi il nostro cervello entra in una modalità che è diversa sia da quella della veglia che da quella del sonno. In questo stato fisiologico, familiare ai contemplativi di ogni tempo e luogo, ci potrà capitare di assaporare l’infinito e di sentirci molto vicini a Dio, in comunione con tutto e tutti, ma di fatto ciò che avviene è una specie di introspezione con una mente che non è quella discorsiva, logico-razionale egocentrata.
Questa mente che osserva, chiamata anche il testimone o semplice presenza (mentale), è al di là dell’ego, perché a livello fisiologico il cervello funziona in modo diverso rispetto a quando elabora il nostro senso dell’io durante la veglia o il sogno.

​Il nirvana descritto da un illuminato potrebbe dunque corrispondere ad uno stato fisiologico particolare che in lui non è transitorio, ma permanente.

Nella maggior parte delle civiltà umane nel corso dei millenni le persone che detenevano un ruolo spirituale nel gruppo hanno spesso fatto uso di sostanze psico-attive per indurre stati di estasi o comunione con il divino*. Questo conferma che il cervello (o meglio il sistema nervoso e lo stato del corpo in generale) ha un ruolo nel predisporre ad un’esperienza estatica o liberatoria.

Sulla base di questo fatto mi viene da ipotizzare che l’illuminazione altro non sia che uno stato fisiologico particolare in cui alcuni individui vengono a trovarsi per predisposizione, e che tutti gli altri comunque possono sviluppare. Mi piace inoltre pensare che sia il cervelletto ad avere un ruolo importante negli stati di coscienza non ordinari, ma questo sarà l’argomento di un altro post!

*L’argomento è trattato in modo approfondito nel libro del neurologo Franco Fabbro Neuropsicologia dell’esperienza religiosa

Neuropsicologia dell'Esperienza Religiosa