Io non sono Nessuno! E tu chi sei?
Non sarai – Nessuno – anche tu?
Allora siamo in due!
Non dirlo! Lo renderebbero pubblico!
Che squallido – essere – Qualcuno!
Che volgarità – come una Rana –
Dire il proprio nome – tutto giugno –
A un Pantano ammirato!
EMILY DICKINSON, 1891, Poesie, Serie n°2
Nell’arco di due settimane ho appreso della morte di due conoscenti.
Avanzare con l’età significa sopravvivere a persone che ci lasciano.
La perdita di una persona cara porta un dolore profondo e devastante. Quando se ne va qualcuno con cui abbiamo condiviso un pezzetto di vita, ci pervade un senso di smarrimento e vuoto sospeso.
All’inizio si stenta a crederlo: “No! Proprio lui! Non è vero”. Poi si cerca un motivo, una ragione. Soprattutto quando le morti sono premature, come in questo caso: un ragazzo bellissimo di 25 anni capace di infondere amore in chi lo incontrava e un comico eclettico e di gran cuore, con circa il doppio degli anni, sempre pronto a sdrammatizzare in qualsiasi situazione.
Quando ero più giovane ero certa di avere davanti ancora molti anni e di fronte alla morte mi proteggevo negando: non capiterà a me! Più passano gli anni, però, più mi diventa chiara la transitorietà anche della mia stessa vita.
Di certo la meditazione, affinando la consapevolezza, mi ha aiutata a vivere il dolore in modo più saggio, ma anche ad accettare che ogni attimo è un regalo ed ogni attimo potrebbe anche essere l’ultimo.
Oggi la meditazione è sempre più spesso proposta come attività per affrontare lo stress e l’ansia, ma è di fatto molto più potente, perché è in grado di darci un senso.
Perché meditare?
Se le religioni, che dovrebbero diffondere il messaggio dell’amore universale, dividono, è normale cercare la via più sensata.
La meditazione di consapevolezza ci connette alla pace profonda, perché si impara a convivere con il proprio dolore in pace. Non perché vengono eliminati tutti i mali, i dolori e le malattie.
I monaci che meditano da tanti anni non hanno perso la capacità di sentire il dolore. Anzi, la loro sensibilità è acuita. Quello che diminuisce è il rimuginio mentale, l’elaborazione inutile di informazioni.
Come scrivevo nel post Meditare fa bene alla salute.
Meditando si sviluppa inoltre la compassione
La compassione è uno stato dell’essere fondamentale, che si genera quando si prende atto della propria o altrui sofferenza e si cerca una soluzione.
Si è cioè motivati ad agire per alleviare quella sofferenza, cercando una cura.
La compassione emerge dunque al di là della consapevolezza e può essere sia a livello personale, nelle nostre relazioni individuali, sia a livello globale, nelle culture e nelle nazioni che interagiscono tra loro.
Il Dalai Lama ha affermato che i problemi del mondo (sociali, economici, ambientali, eccetera) si vedono e si comprendono meglio attraverso le lenti della compassione.
Ed è proprio al Dalai Lama, da decenni grande sostenitore della ricerca scientifica, che va riconosciuto il merito d’aver spinto gli scienziati a studiare gli aspetti positivi della mente.
Fino a circa 15 anni fa ci si occupava solo di patologie. Esistevano manuali dettagliati su ogni aspetto del malfunzionamento del cervello e della mente, ma nessuno studio mirava a capire come operi un cervello gentile, onesto, compassionevole e amorevole.
La scienza ha fatto enormi progressi nel trattamento delle patologie mentali, ma esiste ancora poca ricerca sulle qualità positive della mente umana come la compassione, l’altruismo e l’empatia.
Eppure questi tratti prosociali sono innati e rappresentano il cuore della nostra comune umanità. La capacità di provare compassione ha garantito la sopravvivenza e lo sviluppo della nostra specie nel corso dei millenni. Lo stress quotidiano, la pressione sociale e certe esperienze possono sopprimere la nostra naturale compassione, lasciando spazio a potenziali problemi fisici e psicologici.
Per fortuna, però, possiamo allenarci a prenderci cura degli altri e a sviluppare il nostro istinto compassionevole.
Questo processo richiede solo molta pazienza, cura costante, strumenti adeguati e un ambiente di sostegno.
La scienza della mente
Nel 2008 al Dipartimento di Medicina dell’Università di Stanford è nato il Centro di ricerca e istruzione per la compassione e l’altruismo (CCARE) con l’esplicito obiettivo di promuovere, sostenere e condurre studi scientifici rigorosi su questi temi.
Ad oggi il centro ha collaborato con diversi neuroscienziati, genetisti, ricercatori biomedici e scienziati comportamentali per esaminare da vicino le basi fisiologiche e psicologiche della compassione e dell’altruismo.
Il CCARE immagina un mondo nel quale sia chiaro che la pratica regolare della compassione è importante per la salute tanto quanto l’esercizio fisico e un’alimentazione equilibrata.
In effetti, le tecniche convalidate a livello empirico per coltivare la compassione sono accessibili a tutti e possono essere insegnate e applicate nelle scuole, negli ospedali, nelle prigioni, nell’esercito e in altri contesti sociali.
Accanto agli esperimenti vengono infatti anche insegnate e sviluppate delle tecniche per sviluppare la compassione e l’altruismo. Si tratta di metodi fondati su pratiche buddhiste, ad esempio come indirizzare a se stessi e agli altri pensieri gentili e amorevoli.
Il punto fondamentale di tutte queste pratiche è l’amore per se stessi, solo se impariamo a non essere duri e giudicanti con noi stessi possiamo infatti amare davvero gli altri. È la comprensione profonda di noi stessi che può connetterci meglio agli altri da cui invece rischiamo di sentirci separati se non ci amiamo (vedi Imparare ad amare: la meditazione di gentilezza amorevole).
Essere compassionevoli non ci rende dunque deboli o inefficaci, anzi è l’opposto! Essere più consapevoli dell’amore che c’è dentro di noi ci rende più capaci di rispondere in modo responsabile alle situazioni. L’antidoto più potente per non andare incontro ad esaurimento è avere un genuino buon cuore. |