Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.​

GIACOMO LEOPARDI,1818, L’Infinito

Ero poco più che adolescente, quando ebbi un’intuizione: per afferrare la felicità le uniche persone degne d’esser studiate da vicino sono i mistici. Complice la prof. d’italiano delle medie, avevo capito presto che nessun oggetto al mondo potrà darti una felicità duratura.

Lo scriveva il Leopardi nello Zibaldone. Merito della prof. fu di spiegare bene l’esempio del cavallo riportato da Giacomino: il problema della felicità sta nel continuo desiderio.

I mistici di ogni tempo e religione mi sembravano invece appagati nel profondo, tanto da arrivare a sacrificare la vita con un beato sorriso sulle labbra. Ma perché alcuni esseri umani riescono a contattare una pace serena dentro di loro anche in mezzo alle avversità? Mentre altri sono sempre insoddisfatti nonostante abbiano tutto? Mi chiedevo.

Fu così che, insieme agli studi di fisiologia, biochimica e farmacologia, utili per comprendere le basi biologiche della mente umana e necessari a sostenere gli esami universitari, iniziai a ficcare il naso nelle varie tradizioni spirituali e a praticare lo yoga come disciplina sperimentale dell’unione mente-corpo.

Quando scoprii che Budda descrive il desiderio come fonte di sofferenza e quindi ostacolo tra noi e la felicità, mi sovvenne Leopardi e tirai un lungo respiro. Già. Il dolce naufragare nell’infinito in silenzio.

Ma come possiamo dunque liberarci da questo maledetto desiderio?

I momenti di felicità rispetto a quelli di infelicità si distinguono per l’attenzione e la passione che poniamo nel fare una determinata cosa. Prescindendo da ricchezza, bellezza, salute, fama o gloria, una persona è più felice se è totalmente assorbita da ciò che fa: che sia guardare un tramonto, creare oggetti, scrivere poesie o un software, istruire un bambino, stirare o studiare soluzioni a gravi problemi di ordine sociale, economico e così via.

Sembra facile, dunque: approccio ogni cosa con dedizione e amore e d’ora in poi sarò FELICE! Purtroppo non è così semplice. La buona volontà e il buon cuore non sono sufficienti, perché la nostra mente è condizionata da mille fattori che non controlliamo. Ad esempio, se nell’ambiente in cui siamo cresciuti siamo stati abituati a lamentarci, sarà un lavoro lungo e meticoloso imparare a non lamentarci più ad ogni piccolo ostacolo e ad apprezzare il bello che c’è, invece che desiderare qualcosa che non c’è. È solo questione di atteggiamento, ma è un atteggiamento appreso, inconscio, che opera senza la nostra volontà.

Esercitando l’attenzione possiamo però imparare a non farci fregare dai nostri automatismi indesiderati, appresi nel corso di una vita intera, e anche ad apprezzare quali condizionamenti positivi abbiamo ricevuto. Per fortuna, non è tutto da buttare, anzi, la maggior parte son cose da valorizzare!

Per quanto riguarda il significato della felicità nel cervello di un essere umano a livello fisiologico, le neuroscienze sono arrivate a descrivere alcuni meccanismi che sottendono un cervello ‘felice’. Ecco un video, girato nel febbraio 2004, in cui Matthieu Ricard (un biochimico diventato monaco buddista) parla dell’abitudine alla felicità legata alla capacità di generare onde gamma in monaci con più di 20.000 ore di meditazione alle spalle (l’articolo* di cui si parla dal 15° minuto uscì a novembre del 2004, da allora sono stati pubblicati decine di altri lavori).

La felicità insomma è un’abitudine che può essere coltivata. Chiunque può imparare ad essere felice, occorre solo allenare il nostro cervello.E la meditazione è uno strumento potente utile a questo scopo. Meditando diventiamo consapevoli dei nostri automatismi e condizionamenti e impariamo a correggere in corsa atteggiamenti nocivi al nostro benessere. Il cervello cambia attraverso la pratica quotidiana, permettendoci di assimilare piano piano atteggiamenti benefici a noi e a chi ci sta vicino.MEDITARE diventa poi uno stato dell’ESSERE

E, come avevo intuito in una lontana lezione di italiano su Leopardi, anche la felicità è uno stato dell’essere (indipendente da oggetti, persone o situazioni)

*Lutz A, Greischar LL, Rawlings NB, Ricard M, Davidson RJ (2004) Long-term meditators self-induce high-amplitude gamma synchrony during mental practice. Proc Natl Acad Sci U S A 101(46):16369-73


Una risposta a “La felicità da Giacomo Leopardi a Matthieu Ricard”

  1. […] Nel post La Felicità, da Giacomo Leopardi a Matthieu Ricard avevo già indicato nella capacità di generare onde cerebrali gamma il correlato neuronale dell’abitudine alla felicità. Le neuroscienze ci dicono che anche meditare sull’amore e la compassione per tutti gli esseri viventi fa registrare un netto aumento delle onde gamma e provoca tutta una serie di effetti sia nei meditatori di lunga data che nei principianti, tra questi: diminuzione significativa dell’infiammazione e dello stress (Lutz et al., 2008); aumento significativo della risposta immunitaria (Pace et al.,2009). […]